50 anni di protesi: cosa è cambiato l’intervento

Nel corso degli anni ’70, le prime protesi richiedevano interventi invasivi, degenze prolungate, immobilità prolungata e avevano incertezze riguardo al successo. Queste protesi sostituivano completamente l’articolazione malata, con un taglio chirurgico impattante dal punto di vista estetico. Inoltre, c’era un rischio frequente di lussazione dopo l’intervento, ovvero la fuoriuscita della parte femorale della protesi (stelo) dalla sede acetabolare nell’anca.

Negli anni ’80, grazie allo studio della biomeccanica, allo sviluppo della bioingegneria e alla comprensione della biologia dell’osso attorno alla protesi, si è verificata una svolta nella tecnica chirurgica protesica. Oggi, grazie anche al design di nuovi steli protesici, l’approccio è mininvasivo, rispetta il trofismo dell’osso, ripristina e corregge la biomeccanica dell’articolazione e risparmia l’osso dell’acetabolo, la cavità nel bacino che accoglie la testa del femore e consente il movimento della gamba.

La pianificazione preoperatoria è fondamentale nella scelta della protesi d’anca. Ogni paziente è unico e ha caratteristiche diverse, compresa la forma del femore. Il chirurgo pianifica l’intervento tenendo conto delle caratteristiche del paziente e del tipo di protesi scelta. Questa pianificazione prevede l’uso di esami diagnostici come la radiografia, la risonanza magnetica e talvolta la tomografia computerizzata per valutare l’osso femorale e scegliere il tipo di stelo femorale più adatto. Questa scelta dipende da fattori come l’età, le comorbidità, la qualità dell’osso e le esigenze funzionali del paziente.

Esistono steli protesici diversi per pazienti attivi, sportivi e giovani, nonché per pazienti anziani con basse richieste funzionali. Queste protesi sono sicure, efficaci e anatomiche, e rispondono a requisiti di mininvasività. Oggi, la chirurgia protesica non è solo una sostituzione dell’articolazione, ma anche una ricostruzione della biomeccanica dell’anca.

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